venerdì 21 ottobre 2011

Verso Maya.

C'era una volta una ragazza che amava i Beatles e i Rolling stones, odiava Gianni Morandi, ma citava tutto.
Parlava estrinsecando le emozioni interiori attraverso un mondo ricevuto, e ricreato. Per questo amava il cinema. Accettava il tempo esclusivamente come circolare, immaginava molto, empatizzava tutto. Si sentiva diversa, e come un fiume in piena raccontava e citava quelle immagini viste come se fossero la sua vita, senza che nessuno se ne accorgesse. Come se, la difficoltà dell'accettazione per le proprie disgrazie le imponesse il paragone. Ma non c'era nessuno a cui paragonarsi. Allora diveniva di volta in volta una canzone, un film, un quadro, un filosofo. Trascendeva se stessa, per non esser sola, in quell'inferno di carne, ossa e sangue.
Era una persona particolare, difficile da capire. Neanche lei sapeva bene chi fosse. Si scopriva scoprendo gli altri e le loro espressioni artistiche, che poi sono anche civiche e se vogliamo psicologiche.
Il mondo degli altri in qualche modo la riguardava e la descriveva. L'urlo esasperato, allo stesso tempo spaventato e fragile di Munch, era come uno specchio a volte. La volgarità e la misantropia di Bukowski la rincuoravano. La perfezione stilistica e la comunicazione allegorica di Dante non la facevano sentire pazza. Il dolore lancinante de La prima cosa bella di Virzì era per lei catartico ed espiatorio. Le parole di De Andrè musicavano i suoi pensieri. Allora si esprimeva attraverso le uniche cose che gli somigliavano veramente, e si sentiva meno sola.
Avrebbe voluto essere un po' più se stessa, ma era troppo complicato. Tutti hanno bisogno degli altri, ma nel prossimo (inteso come vicino di casa, amico, compagno) lei non ritrovava se stessa.
Si attaccava così visceralmente alle sue passioni, che quelle poi non erano più ostentazione o dimostrazione di un sapere, erano pura estensione dell'essere.
Se tutti fossero come quella ragazza, forse non ci sarebbero più spocchiosi, esseri mitologici e profondamente umani, e forse, non esisterebbe neanche l'arte contemporanea, ad esclusione della pop art.

Lei aveva oltrepassato il limite, aveva squarciato il velo.

mercoledì 12 ottobre 2011

VUOTO.

C'è chi parlava di pessimismo cosmico, chi di natura matrigna, chi di pendoli e appagamento, c'è chi razionalizzava tutto. E' esistito addirittura qualcuno che uccideva dio,qualcuno che lo negava, altri si confessavano a lui. Persone che hanno costruito strutture e sovrastrutture. C'è chi dormiva scrivendo, chi capiva sognando.
Discettare di altri è semplice.
Discettare con gli altri è difficile.
Io preferisco la prima, e ringrazio. Ringrazio chi me l'ha permesso.
Ringrazio il gossip, la tv, lo show della cronaca nera.
Ringrazio la bruttezza dei manuali, troppo ingombranti per poter piacere, dalla dialettica troppo serrata per poterli capire. Io sono pigra, pensare è oneroso, l'hanno fatto in tanti, hanno detto tutto, lo scibile è infinito, ma la mente umana no.
Il progresso ha aumentato la vita, ingrandito i corpi, le case, le strade e le città, ma mignonizzato (neologismo) il cervello. Io ringrazio. Non c'è più sforzo ad esser intelligenti, non c'è più lotta alla conoscenza.
Percepisco il vuoto e un po' mi fa schifo, ma i manuali sono brutti e la gente non li vuole.
Allora mi chiedo, a che serve il macketing, se ha creato il vuoto.

In ordine di “apparizione”: Leopardi, Shopenauer, Hegel. Nietzsche, Feuerbach, Sant'Agostino. Marx. Breton, Freud.



Il vuoto affascina, è ammaliante nel suo non essere. Esso empiricamente non esiste, razionalmente è inafferrabile, ma c'è. E' la nostra ombra, è il tarlo che ci ammonisce di non rinunciare all'opulenza, altrimenti arriverebbe la sua antitesi, lui, il vuoto.